20 ottobre 2015

FILIPPO II DI MACEDONIA, PIÙ CHE L’EREDE POTÈ L’EREDITÀ?



Statista, innovatore, stratega, conquistatore. Uccide e unifica la Grecia delle pòleis per proiettarla nel mondo. Solo una morte precoce gli strappa l'eternità ottenuta dal figlio. Tra una chiara visione politica e un puro sogno di gloria chi è il vero Magno della storia?

CHE I MERITI DEI PADRI RICADANO SUI FIGLI
Conquistare ed unire una Grecia ormai in declino per il suo cronico autonomismo distruttivo; annientare il vastissimo, multinazionale ma decadente impero Persiano e fare della piccola, periferica Macedonia il fulcro di un nuovo corso della storia. Questa la lucida visione di Filippo II, re di Macedonia tra il 359 e il 336 a.C., in un misto potente e vincente di abili doti diplomatiche apprese nell’esilio giovanile di Tebe, la polis sempre rivale di Atene e Sparta, e formidabili innovazioni militari come la falange macedone, la più straordinaria macchina da guerra del mondo antico prima delle legioni romane. Ristabilire la giusta memoria su questa figura è fondamentale per comprendere meglio la fama eterna conquistata dal suo erede: senza l’impalcatura costruita da Filippo II sarebbe davvero esistito suo figlio Alessandro Magno? Qual è la differenza e in cosa si completano? È presto detto, la storia dimostra che il più grande risultato della loro esistenza, ovvero l’estensione ad Oriente del mondo ellenico in poco più di 35 anni, deriva dall’incontenibile fusione tra i concreti disegni strategico-politici del primo e dal puro sogno di gloria del secondo. Ma per rendere onore alla storia stessa, è necessario inquadrare nella migliore ottica l’eredità lasciata dal padre per rileggere l’effettiva parabola del figlio come conquistatore-modello di ogni tempo. L’epopea di questi due leggendari e contrastanti personaggi assume contorni ancora più sensazionali se pensiamo a cos’era a quel tempo la Macedonia nel mondo greco, culla della civiltà occidentale a partire dal 1400 a.C.: “Probabilmente la maggior parte dei greci ignoravano perfino l’esistenza della loro più settentrionale provincia, la Macedonia… Le città-stato del sud avevano scarsissimi rapporti con quei lontani parenti del nord, che, sebbene parlassero la loro stessa lingua o pressappoco, non le avevano dato né un poeta, né un filosofo, né un legislatore… Erano sparpagliate tribù di pastori che vivevano in regime patriarcale, attruppate ciascuna intorno al proprio signorotto. La loro evoluzione politica non aveva affatto seguito quella della Grecia, era rimasta medievale. C’era un re, ma il suo potere era limitato da quello di ottocento vassalli, ciascuno dei quali, nella propria circoscrizione, si sentiva padrone assoluto e non ammetteva interferenze. Essi non andavano che di rado e malvolentieri a Pella, la capitale, che infatti era rimasta un agglomerato di capanne intorno all’unica piazza: quella del mercato”. I. Montanelli, Storia dei Greci, p.254.
 
Una Macedonia che si riduce a minuscolo puntino geografico se osservata in un quadrante più vasto di territori e regni già protagonisti, tanto da poterla definire “una folgore che fece irruzione sullo scenario del mondo antico in uno scacchiere, quello eurasiatico/mediterraneo, che dopo la metà del millennio precedente l’era volgare era andato consolidandosi in quattro poli politico militari destinati, in maggiore o minore misura, a divenire imperi. Più a occidente, alla metà del millennio, dopo due secoli e mezzo di vita, Roma si era appena sbarazzata dei suoi sovrani etruschi e iniziava la sua espansione nel Lazio prima, nella penisola italica successivamente. Di fronte a essa, nel meridione, Cartagine, già colonia fenicia di lunga data, con le sue ramificazioni commerciali e il possesso dei territori, come la Spagna, ricchi di risorse economiche, poneva a sua volta le basi per un’espansione della sua area di controllo che l’avrebbe inevitabilmente fatta entrare in collisione con l’Urbe. Nel settore orientale, altri due colossi si disputavano una posizione di preminenza, dando luogo, nei secoli, a una disputa perfino più estesa nel tempo di quella tra punici e capitolini. Si trattava dei greci, la cui espansione si era estesa ben oltre la penisola ellenica, fino alle coste dell’Italia meridionale a ovest e lungo quelle dell’Asia Minore a est, e i persiani, il cui impero, nel corso del tempo, si era esteso in modo abnorme, dalle coste dell’Asia Minore, a occidente, fino all’Indo, ad oriente, inglobando, anche a sud, una parte del continente africano, ovvero l’Egitto”. A. Frediani, Le grandi battaglie di Alessandro Magno, p.27.

IL CAPOLAVORO DELLA FALANGE MACEDONE
Filippo II, alla morte del padre Aminta III sconfitto dagli Illiri, si ritrova ostaggio dei vincitori a seguito di un trattato. Inizia una serie di vicissitudini che lo porteranno fino a Tebe dove apprende la lingua, i costumi, la politica e soprattutto le arti militari al seguito di Epaminonda, celeberrimo generale tebano e vincitore degli spartani a Leuttra con l’impiego del Battaglione Sacro, élite dell’esercito, costituito da 150 coppie di amanti dello stesso sesso. È questa la miscela che eleva Filippo su ogni altro macedone del tempo, che ne plasma la visione, la tattica e la strategia: unità del suo regno all’interno e rafforzamento all’esterno per abbattere infine i Persiani. Una volta asceso al trono si dedica alla profonda riorganizzazione dello Stato e dell’esercito imponendosi quale grande innovatore per diventare la principale rampa di lancio di una nuova concezione militare e precursore di nuovi equilibri per i secoli successivi fino all’avvento di una Roma ben intrisa, però, di influenza ellenica: “La creazione di un tipo di soldato in cui si fondessero professionalità dei mercenari e la dedizione a una causa da parte della milizia cittadina è stata dunque la più grande testimonianza del genio di Filippo e della superiorità del suo combattente rispetto agli altri… Una mente ricettiva e ambiziosa come la sua non poteva non fare propria la lezione impartita ai contemporanei da Epaminonda, il primo a usare in modo flessibile il blocco monolitico della falange, e a farne uso su scala ben più ampia. Prima del predominio tebano, infatti, gli opliti greci marciavano in file compatte e uniformi con le loro picche tese in avanti, con l’unico obiettivo di rompere lo schieramento avversario all’impatto: non era lecito pretendere manovre più sofisticate da una milizia richiamata alle armi nel periodo estivo; anzi, operazioni più dinamiche erano addirittura proibite, in quanto considerate nocive per la coesione delle formazioni e quindi per l’efficacia della forza d’urto… Filippo, invece, che di elasticità mentale ne aveva da vendere, non solo recepì la lezione di Epaminonda, ma la evolse combinandola con l’apporto della cavalleria, di cui egli disponeva in misura maggiore rispetto ai greci”. A. Frediani, Cit., pp.42-43.
 
È il capolavoro della falange macedone che Filippo lascerà in dono al figlio per la sua travolgente cavalcata conquistatrice: “Seppe creare un esercito professionale di stato in un’epoca in cui, in Europa soprattutto, esistevano solo tre categorie di combattenti, e di discutibile efficacia per giunta: milizie cittadine ansiose di salvare la pelle e tornare al più presto alle famiglie e alle attività svolte come civili, impacciate e assai poco professionali; mercenari altamente specializzati ma privi di ideologia e di affezione nei confronti del comandante supremo, disponibili a cambiar bandiera di fronte a una maggiore convenienza, montanari, pastori, agricoltori, – era il caso specifico della Macedonia – sprovveduti e improvvisati soldati, di regola paurosi e superficiali in battaglia… Fu in grado di andare al di là del semplice concetto di esercito, che monopolizzava la mentalità di gran parte dei condottieri dell’epoca antica, ampliandolo a quello di ‘forze armate’, strutture composite che comprendevano non solo il binomio fante-cavaliere – esso stesso una novità, in un’epoca in cui i comandanti difficilmente li utilizzavano in modo complementare –, ma tutti gli altri elementi che oggi si danno per scontati in un’armata, come il genio, gli esploratori, le truppe leggere di copertura, i serventi, i reparti ossidionali”. A. Frediani, Cit., pp. 10-11.
 
Così, Militarmente l’esercito greco diventa il migliore del mondo: “L’oplita pesantemente armato, il fante dotato di lancia, corazza e disciplina costituiva il modello sul quale erano misurati gli altri soldati, e la falange di cui faceva parte fu la formazione che dominò i campi di battaglia, fino a quando venne adottata dall’impero romano e modificata nella coorte. In effetti, da questo momento in avanti, i Persiani si servirono di soldati e formazioni greche, arruolando un gran numero di mercenari per combattere le loro guerre in Asia. Con gli opliti, Filippo il macedone controllò la Grecia, mentre suo figlio Alessandro costruì un impero che raggiunse l’India”. P. K. Davis, Le cento battaglie che hanno cambiato la storia, p.30.

FINE DELLA GRECIA ED ESTENSIONE DELLA CIVILTÀ ELLENICA
Provvisto di questo strumento invincibile e dosando forza e astuzia, Filippo inizia a puntellare il suo regno per arrivare, col tempo, ad una monarchia unitaria della Grecia e sferrare l’attacco definitivo ai Persiani. I primi nemici a cadere, in un periodo di grande instabilità che continua a vedere le pòleis greche sempre in lotta tra loro, tra il 359 e il 348 a.C., sono gli Illiri nei Balcani, la Tessaglia ad Ovest e la città di Olinto che gli aprono la strada all’oro della Tracia e al controllo dell’alto Egeo. Il peso di queste vittorie e la situazione precaria di Atene dal punto di vista economico e militare consentono a Filippo di entrare a pieno titolo nel Congresso Anfizionico, una specie di Onu greca, in cui fa sentire tutta la sua influenza in attesa della resa dei conti con Atene rappresentata in una tensione crescente dall’oratore Demostene, autore delle famose ed infuocate Filippiche. La miccia finale si accende da un contrasto apparentemente marginale tra Atene e gli abitanti di Anfissa su presunti sacrilegi religiosi: “Anfissa era una delle città che guardava con favore a Filippo, in molti lo consideravano un capo che avrebbe potuto unificare la Grecia contro quello che vedevano come il vero nemico, la Persia… Demostene si accorse che Tebe non era in buoni rapporti con i Macedoni, e costituiva quindi un potenziale alleato che non sarebbe stato saggio irritare... Tanto Filippo che Demostene capirono che la resa dei conti era inevitabile. Dal 399 si discuteva se in questa disputa Filippo stesse corrompendo personaggi chiave, o se Demostene, stesse prendendo tangenti da Anfissa. Qualunque cosa avvenisse tra le quinte, l’esercito macedone si preparava a marciare sulla Grecia, vuoi per applicare le misure decise dal Congresso anfizionico contro Anfissa, vuoi per aiutare questa e i Locresi contro un simile attacco guidato da Atene. Quando Filippo entrò con i suoi nella Grecia centrale, nel settembre del 339, Tebe dovette decidere quale fosse, tra i Macedoni e Atene, l’alleato che più le conveniva: una convincente orazione di Demostene fece sì che l’assemblea tebana votasse a favore di un accordo con gli Ateniesi contro l’invasore. Demostene permise il totale coinvolgimento della flotta ateniese, il conferimento a Tebe del comando delle forze congiunte di terra e il pagamento di due terzi delle spese di guerra”. P. K. Davis, Cit., pp.44-45.

Sulla battaglia di Cheronea, in Beozia, nel 338 a.C. non si hanno molti dettagli: in numero le forze impegnate sembrerebbero essere state di pari entità; merita in ogni caso di essere annoverata tra i conflitti centrali della storia perché la vittoria di Filippo segna la fine dell’indipendenza greca e il lancio del figlio Alessandro tra i massimi conquistatori della storia: “Tra i tanti fattori che contribuiscono a fare di Cheronea uno degli scontri determinanti della storia occidentale è anche la presenza, attestata per la prima volta in battaglia, se pur con un ruolo di comandante subalterno, del più grande conquistatore della Storia: Alessandro Magno. Il figlio del re aveva allora diciotto anni, e comandava l’ala sinistra, cui Filippo si trovò costretto ad affidare il ruolo più dinamico. Il sovrano aveva avuto quel figlio smanioso, ambizioso e vivace dalla quarta moglie Olimpiade, la sorella del re dell’Epiro, il cui volitivo, orgoglioso e appassionato carattere molto influenzava quello del ragazzo… Tornando a Cheronea, dobbiamo supporre che i due eserciti avversari si equivalessero in termini numerici. Le cifre dei macedoni sono certe: 30.000 fanti e 2000 cavalieri; quelle greche, al contrario, fluttuano da un’entità maggiore a una minore, e questo ci induce a credere, facendo una media, che la composita armata greca non si discostasse molto da quella avversaria. Ciò dava già un netto vantaggio a Filippo, la qualità dei cui effettivi era di gran lunga superiore, come d’altronde quella dei comandanti subalterni, sui quali spiccava più di ogni altro Parmenione… Era stato uno scontro tra soldati dilettanti e professionisti: tra un comando parcellizzato e centralizzato; tra un’entità geopolitica in ascesa e altre in declino; tra un uomo politico con una chiara visione d’insieme e tanti altri capi, politici e militari, tenacemente abbarbicati al loro spirito campanile”. A. Frediani, Cit., pp.54-57.

Un trionfo che Filippo non disperde in un prevedibile delirio di onnipotenza, la diplomazia alberga sempre in lui per la capacità di mirare al risultato successivo, tenendosi le spalle coperte e conferendo all’unità del suo sistema un valore assoluto. Il suo sguardo è rivolto ai Persiani e per questo prepara il terreno restando magnanimo nella vittoria con i Greci: “Rimise in libertà i duemila prigionieri che aveva catturato e mandò ad Atene, come messi di pace, il figlio diciottenne Alessandro, che si era coperto di gloria a Cheronea come generale di cavalleria, e il più accorto dei suoi luogotenenti, Antipatro. Il diktat era estremamente generoso: Filippo chiedeva soltanto che gli venisse riconosciuto il comando di tutte le forze militari greche contro il comune nemico persiano. Gli ateniesi, che si aspettavano di peggio, acclamarono in lui un nuovo Agamennone. E alla conferenza di Corinto tutti gli stati che vi mandarono i loro rappresentanti, meno Sparta, accettarono di riunirsi in una confederazione ricalcata su quella beota, impegnandosi a darle i loro contingenti militari e a rinunziare alle rivoluzioni. Ve li spinse finalmente un bisogno di unità? Forse qualcuno lo avvertiva. Ma la maggior parte speravano soltanto che il nuovo padrone s’imbarcasse al più presto nell’avventura persiana e possibilmente non ne tornasse”. I. Montanelli, Cit., p.259.
 
Vana o meno questa speranza, la certezza storica in quel momento è che la Grecia delle pòleis, dell’indipendentismo più minuscolo a tutti i costi, è morta. Ora ha in Filippo un padrone e unificatore che già prepara la sua mossa finale, ma come un ennesimo Mosè della storia non vedrà la sua terra promessa morendo, in modo tragico quanto banale, per mano traditrice di una sua guardia del corpo, Pausania di Orestide: le ragioni starebbero in rancori personali o addirittura nel coinvolgimento dello stesso Alessandro e della madre per i più svariati motivi dinastici, essendosi Filippo impegnato in diverse procreazioni su cui puntare per la successione. Considerando la pagina leggendaria che con la sua morte sta per aprirsi, dovremmo parlare di Filippo come di un glorioso incompiuto? Nel tentativo di una risposta o quantomeno di un ragionamento di buon senso, dopo aver tracciato il profilo da statista e guerriero, va ricordato il contributo di Filippo alla formazione di Alessandro e la reale eredità con cui il futuro conquistatore si consegna all’eternità.

DAVVERO MAGNO ALESSANDRO SENZA FILIPPO ???
Probabilmente, viste le premesse, senza la sua morte prematura Filippo avrebbe raggiunto altri straordinari risultati; forse gli stessi di Alessandro ma condendoli di politica e strategia più che di un’irrefrenabile ambizione al dominio sugli spazi infiniti peculiare nel figlio, morto altrettanto precocemente insieme alla sua stessa opera. La fine di Alessandro sarà lo smembramento dell’impero ellenico in un arcipelago di regni e satrapie. In ogni caso pur sempre una folgorante e ineguagliata parabola la cui architettura principale si deve a Filippo che non trascura la formazione del figlio sin da bambino, affidandolo ai migliori maestri del tempo, per farne un leader completo, tra cui Aristotele.
Certamente l’avventura e le vittorie di Alessandro diventano un modello di imitazione, un’aspirazione massima per tutti i conquistatori successivi. Non c’è dubbio che per questo primato vi sia il concorso di vari fattori: “In linea di massima, i successi di un generale si devono ascrivere in misura variabile, ai suoi meriti quanto ai demeriti degli avversari; ma per il caso specifico di Alessandro entra in gioco un terzo elemento: i meriti del suo predecessore… È lecito ritenere che solo la sua morte precoce abbia precluso a Filippo II un posto tra i più grandi conquistatori e generali della Storia: i suoi obiettivi, forse erano meno ambiziosi di quelli di Alessandro, ma andavano certamente al di là di quello, già rimarchevole, di aver unificato pressoché l’intera penisola ellenica. E poi, lo straordinario esercito con cui Alessandro vinse tutte le battaglie lo aveva forgiato lui, quasi dal nulla, consegnando al figlio uno strumento di un’efficacia bellica senza pari a quell’epoca, pieno di innovazioni e tratti originali che solo in parte traevano spunto dalle migliori menti militari prodotte dalla storia più recente della Grecia”. A. Frediani, Cit., p.10.
 
Il primo risultato di questo patrimonio di forze nelle mani di Alessandro sarà, nel 331 a.C., la vittoria sui Persiani a Gaugamela e da lì il passaggio della conquista greca tra Caucaso, Afghanistan, India nord-occidentale, Iraq. Voleva insomma riunire Asia ed Europa in un unico vero reame?: “Alessandro è uno dei personaggi che più hanno solleticato la fantasia di biografi e romanzieri, ognuno dei quali ha finito col prestargli le proprie idee e intenzioni… Alessandro non sapeva cosa fosse l’Asia per il semplice motivo che a quei tempi non lo sapeva nessuno. E se lo avesse saputo, non credo si sarebbe proposto di conquistarla e di tenerla soggetta con ventitremila uomini. In quel momento non era così pazzo da concepire un simile disegno… Credo che tutte le intenzioni che gli sono state imprestate siano senza fondamento. Esse non si possono riportare a un’idea politica, come nel caso di Filippo, che sapeva perfettamente quel che voleva. Alessandro non seguì un piano: inseguì una chimera e, più che artefice ci appare lo schiavo di un destino… Quello che trasse Alessandro contro l’Asia non fu un piano né strategico né politico. Fu un sogno di gloria dietro il quale corse undici anni, senza risvegli… Forse proprio per questo interpretò e concluse nel modo più adeguato possibile il ciclo di una civiltà come quella greca, condannata dalla sue forze centrifughe a morire per dispersione”. I. Montanelli, Cit., pp.264, 269.

È pur vero che una storia fatta con i se… non consente alcun risultato assoluto, così il giudizio non può che restar sospeso, ma non scontato come da vulgata ufficiale, sulla base degli elementi di cui si dispone. È oggettivo che Alessandro non avrebbe potuto darsi alla conquista senza il retroterra seminato dal padre, ma è altrettanto vero che il giovane macedone resta un condottiero ineguagliato. In una visione d’insieme delle due figure il risultato è epocale: “Atene, Sparta e Tebe avevano lottato per l’egemonia locale; Atene fu quella che più si avvicinò a quello che chiamava impero, ma, tutto sommato, si trattava di colonie destinate ad avvantaggiare la madrepatria Filippo e Alessandro, unificando la Grecia sotto il loro controllo, portarono i Greci assai più lontano di quanto sarebbe mai riuscita a fare da sola una qualsiasi città-stato. D’altro canto, le città-stato greche non esercitavano più alcun vero potere politico. Sin dall’inizio del V secolo a.C., esse erano state la principale potenza economica del Mediterraneo; dal 338 in poi, rimasero sotto il tallone di qualcun altro, Macedoni o Romani, per quasi mille anni”. P. K. Davis, Cit., p.47. 

13 marzo 2015

ASSURNASIRPAL II, CRUDELE MAESTRO DI IERI PER I FEROCI BARBUTI DI OGGI

Dall’Antica Assiria i corsi e i ricorsi della storia. Nelle atrocità dei nostri giorni, col pretesto di servire il disegno di un Dio, la lezione dimenticata di un impero di sopraffazione e di morte ma dallo sguardo lungo verso l’arte, l’economia e quindi il progresso e l’eternità

TERRORE PREVENTIVO PER VITTORIA FUTURA
Erroneamente definiamo civiltà sepolte quel mix di popolazioni e culture che, tra il Tigri e l’Eufrate, hanno tracciato i primi percorsi conosciuti dell’evoluzione umana. Non sono affatto sepolte giacché la loro influenza continua a farsi sentire puntualmente da quell’angolo di mondo ancora fulcro di instabilità internazionale. Luoghi che da millenni danno tuttora il nome a zone di guerra o, in questi giorni, con la loro silenziosa e polverosa archeologia eccitano la furia iconoclasta dell’islamismo integralista per cancellare la storia e il progresso. Ecco quindi la distruzione dei siti e delle ricchezze delle antiche capitali Ninive e Nimrud con una brutalità e ferocia pari ai tanti re assiri che tra il III millennio e il 600 a.C. fonderanno un impero mesopotamico esteso tra Egitto, Siria, Palestina, Fenicia e Anatolia. Niente male per un popolo di pastori dell’odierno Iraq settentrionale. Di questi antichi sovrani, sono appunto la brutalità, la ferocia, lo stragismo e la deportazione gli elementi distintivi con cui basano la loro espansione a scapito delle popolazioni vinte. Secondo quanto si tramanda il più crudele sarebbe stato re Assurnasirpal II, tra l’883 e l’859 a.C., che porta l’impero al suo apogeo schiacciando ogni forma di resistenza lungo le direttrici di marcia Nord, Sud, Ovest e consolidando definitivamente l’immagine dell’assiro spietato e sanguinario: “L’Assiria… si stendeva a Nord lungo il rapido corso del Tigri. La Babilonia, l’antica Sumer e Akkad, comprendeva al Sud la regione fra l’Eufrate e il Tigri fino alle verdi acque del Golfo Persico. In una enciclopedia popolare del 1867, sotto la voce ‘Mesopotamia’, si trova questa esauriente illustrazione: Il paese raggiunse l’apogeo sotto le dominazioni assira e babilonese. Sotto gli Arabi fu sede dei califfi ed ebbe nuovo periodo di grande fioritura. Con l’invasione dei Selgiuchidi, dei Tartari e dei Turchi cominciò a declinare, e ai nostri giorni è ridotto in parte ad un deserto spopolato”. C. W. Ceram, Civiltà sepolte, p.217.
 
La coincidenza geografica delle atrocità in atto oggigiorno sembrerebbe ricalcare proprio quei metodi di conquista sia nello spargimento di sangue, sia negli effetti sull’immaginario collettivo: “Sotto questo aspetto, le distruzioni e le crudeltà per le quali si è reso famoso – soprattutto perché se ne faceva un vanto nelle sue iscrizioni – e con le quali, più di ogni altra cosa, Assurnasirpal è passato alla storia, sembrano far parte di una deliberata e meditata politica di intimidazione; nelle sue iscrizioni si annoverano: terra bruciata nei territori refrattari al suo dominio; deportazioni di massa in Assiria delle popolazioni locali e, viceversa, trasferimento di coloni nei territori recentemente soggiogati; punizioni esemplari e truculente per i ribelli pervicaci che furono regolarmente squartati, impalati, scorticati vivi, crocifissi, mutilati, posti a rogo o sepolti vivi… Si evince la distruzione totale di non meno di 21 città e il massacro della popolazione in almeno 15 occasioni”. A. Frediani, I grandi condottieri che hanno cambiato la storia, pp. 41-42.
 
I NUOVI BARBARI E LA LEZIONE DIMENTICATA
L’azione militare di Assurnasirpal II contempla la devastazione sistematica intesa come senso di sicurezza da garantire ai confini del suo impero con il risultato, però, dello scoppio di ripetute ribellioni da affrontare su vasta scala. Da qui l’avvio di un programma d’espansione spietato in cui il terrore è un elemento propedeutico alla vittoria. Gli esempi sono numerosi come nel caso della rivolta debellata nell’attuale zona di Kirkuk (nell’881) e risolta con la deportazione di manodopera per la nuova capitale a Nimrud; ancora in Armenia, presso il lago di Van, il re assale ed espugna una fortezza di ribelli uccidendo tra le fiamme 300 prigionieri. Avvalendosi di una particolare ed estrema rapidità di movimento arriva a puntellare il suo regno passando per la Siria, la Fenicia, sfociando sul Mediterraneo e via via così fino all’870 con la conquista della città di Damdamusa sulle rive del Tigri in cui vengono massacrati 600 uomini e dell’insediamento di Amid con 3000 crocifissioni.
È una dimostrazione di forza che consoliderà l’impero per altri due secoli, un esempio di “velocità che fu in grado di ottenere non solo fruendo di un servizio informazioni capillare ed efficiente, ma soprattutto rendendo il suo esercito uno dei più mobili del mondo antico, grazie alla salda disciplina, alla divisione delle unità combattenti in base al loro armamento e all’utilizzo della cavalleria, una variante inedita rispetto alla tattica dell’epoca, basata sui carri da guerra e sulla fanteria. Si dimostrò inoltre un poliorceta insuperabile, espugnando qualunque roccaforte incontrasse sul suo cammino, la gran parte delle volte con l’assalto diretto, grazie alle torri semoventi di cui disponeva, alte quanto le mura nemiche e dotate di arieti per la distruzione delle stesse, che completavano il lavoro dei minatori”. A. Frediani, Cit., p.42.
 
Nonostante l’istinto distruttivo, Assurnasirpal non adagia il suo incontrastato potere sugli allori o meglio ancora sulle macerie, ma dedica grandi sforzi ad un’intensa attività architettonica fatta di palazzi, statue, bassorilievi, templi necessari a rendere la nuova capitale degna dell’antica e gloriosa Ninive: “Nel ricordo degli uomini, Ninive fu caratterizzata solo da delitti, saccheggi, oppressione, violazione dei deboli, guerra e terrore in ogni loro aspetto, attraverso una serie sanguinosa di dominatori che regnarono soltanto con la violenza, che raramente ebbero il tempo di morire di morte naturale, e a cui successero altri sempre peggiori… E Ninive fu la Roma assira, città elevata alla massima potenza, metropoli mondiale; città dai palazzi, dalle piazze e dalle strade giganteschi, città di nuove e inaudite conquiste tecniche”. C. W. Ceram, Cit., pp.268-269.
 
Il suo impegno edificatorio non è solo vanità ma la conferma del profondo sviluppo artistico ed economico raggiunto dall’Assiria che “si afferma nelle vie di traffico che congiunge l’alta Mesopotamia all’Anatolia sud-orientale e centrale, con la fondazione di avamposti commerciali, in assiro detti Karùm, termine che all’origine identifica propriamente la banchina del porto. Gli Assiri esportano in Cappadocia tessuti e stagno (proveniente dall’altopiano iranico) e ne ricavano argento, e anche oro. Il commercio si svolge mediante carovane di asini… sostanzialmente gestito da imprenditori privati (tamkarùm ‘commercianti’), che sono appoggiati dal potere politico”. C. D. Bardeschi, Mesopotamia, p.99.
 
Ebbene, non solo potere mortale e devastante ma un progetto imperiale più articolato. Potremmo affermare che più o meno in quegli stessi luoghi la storia non solo sembra essersi fermata, ma tragicamente regredita più che ad una pagina neoassira ad un’orda di barbari che in questi giorni di conquista e annientamento si stanno dedicando a roghi umani, crocifissioni, decapitazioni e, in una ritorsione senza tempo, alla distruzione stessa dei resti delle due capitali. Ad ora è molto difficile scorgere altro all’orizzonte, nemmeno il fantasma di Assurnasirpal ad indicare una via di ricostruzione.

16 gennaio 2015

LUCKY LUCIANO, AMERICAN DREAM E SOTTILE CONFINE TRA CRIMINE E IMPRESA

Nel melmoso terreno dove si confondono e cooperano legalità e illegalità a vantaggio di spregiudicate culture economiche e sociali, un gangster si eleva a livello di costruttore e organizzatore ottenendo nel bene e nel male un posto nella storia
 
UN MANAGER DEL VIZIO E DELLA MORTE COCCOLATO DAL SELVAGGIO WEST
In una quotidianità che riconferma la potenza dell’italico e abietto groviglio Stato-antistato, un letale intreccio rivolto al più puro affarismo, è bene ricordare che nella patologia di questo reticolo di avidità umana non c’è sempre e soltanto un risvolto da bassa cronaca nera o giudiziaria, ma, per certi versi, pagine di storia in cui la genialità del male si miscela spesso con l’economia e la sociologia. L’esempio tangibile che ha fatto da battistrada all’ondivago legame tra legalità e illegalità è Salvatore Lucania, più avanti americanizzato in Charles “Lucky” Luciano, un emigrante siciliano, come moltissimi agli inizi del ‘900, in cerca di fortuna nel Nuovo Mondo e futuro padre della moderna criminalità organizzata. Nel 1905, Luciano ha 8 anni e approda a New York con la famiglia. Si fugge dalla fame ma le condizioni restano precarie e il destino è già in corso: a 10 anni arriveranno le prime condanne per furto. Avvisaglie di un lungo percorso in cui il gangster si trasforma “in una sorta di consulente aziendale della criminalità, cervello imprenditoriale che presiede a una ristrutturazione dall’alto della mafia secondo un nuovo modello industriale… Creò una Commissione con compiti di governo, formata dai capi delle Famiglie di New York…”. J. Dickie, Cosa Nostra – Storia della mafia siciliana, p.237.

Solo una questione di destino, di ipocrita giustificazionismo dettato da presunta sfortuna, o non anche il prodotto di una certa subcultura americana – quantomeno dell’epoca – basata su un sistema di valori spregiudicato nel valutare la qualità degli uomini e delle loro imprese?: “Si tratta di una cultura la cui anima profonda è da individuare nel cosiddetto ‘spirito della frontiera’ (assimilabile ad un certo selvaggio e sfrenato libertarismo) che tende a dare valore e merito al successo comunque conseguito. Dominante in una siffatta mentalità è l’idea che l’‘eroe’ sia l’individuo capace di giocarsi integralmente la vita per la piena realizzazione della sua propria individualità, non importa se per la legge o contro la legge… Va da sé che il vincente è colui che riesce a piegare le regole ai suoi interessi. Il perdente è chi non ci riesce… È il caso dello sceriffo che riesce a sterminare i criminali della contea; ed anche, simmetricamente, il caso del criminale che riesce a tenere testa a tutti gli sceriffi. Entrambi, a diverso titolo, meritano più ancora che rispetto, ammirazione. Entrambi sono ‘eroi’ perché capaci di mettere integralmente in gioco la vita, mostrando di non barare circa la qualità dei propri mezzi personali. Se poi al criminale tocca infine l’amara sorte del capestro, questo è giusto che accada e quanti stanno dalla parte del bene non possono che averne soddisfazione; ma il criminale continua, nonostante tutto, a meritare esattamente quel tanto di rispetto che corrisponde al grado di intraprendenza e di efficacia delle sue imprese contro la legge e, penzolando da una forca, paga il prezzo del suo sfortunato ma imprescrittibile diritto naturale all’avventura”. G. C. Marino, I Padrini, p.155.

Premessa utile per scorgere nei contorni del nostro personaggio il classico cowboy americano di ottocentesca memoria, tutto fucile e coraggio. E Luciano non mancherà di mostrare queste “qualità” sin dal rapido apprendistato agli ordini del boss Joe Masseria e successivamente nelle immense opportunità offerte, non solo da caratteristiche personali, ma da eventi politici ed economici come l’epopea del Proibizionismo negli anni Venti e Trenta; a suo modo, al di là degli obiettivi di fondo, un altro lungo momento di amalgama tra sfera legale e illegale della società e della cultura: “Il movimento proibizionista… fu una delle più lunghe crociate sociali della storia americana… Prima della Guerra civile (1860-65) i riformatori ritenevano che la schiavitù e l’alcool fossero le due forme di oppressione che minacciavano maggiormente il progresso e la libertà… La crociata del proibizionismo non solo aveva una matrice nativista, ma rientrava anche nei piani di riforma sostenuti da molti progressisti per eliminare la povertà, proteggere la famiglia, promuovere una maggiore efficienza sociale e attaccare il big business”. M. E. Parrish, L’età dell’ansia – Gli Stati Uniti dal 1920 al 1941, pp.116-117.

Nel 1919 il Congresso degli Stati Uniti approva il Diciottesimo emendamento e il Volstead Act che proibiscono la fabbricazione, la vendita e il trasporto di bevande alcoliche in tutta la nazione. Vedremo che, non una figura criminale, ma un sistema d’impresa si imporrà come particolare mediatore tra le più sfrenate e libertarie esigenze sociali tipiche di quello ‘spirito della frontiera’ accennato in premessa; con il risultato paradossale di offrire un palcoscenico di rivalsa ed emancipazione a quelle minoranze italiane, ebraiche e irlandesi in genere discriminate in qualsivoglia attività elevata socialmente: “Il proibizionismo, oltre ad arricchire i produttori clandestini e contrabbandieri di alcolici, aveva tra i suoi principali effetti quello di rendere a suo modo ‘rispettabile’ l’illegalità: si trattava, infatti, di agire su un terreno di rapporti sociali nel quale l’aiutare la gente a sottrarsi al divieto di bere alcolici lo si sarebbe potuto persino interpretare come una forma di laica resistenza a un puritanesimo da vecchie beghine impostosi, e diventato, legge, per l’immediato tornaconto propagandistico di un ceto politico tanto ipocrita quanto sostanzialmente corrotto. Tra l’altro, il proibizionismo era una speciale forma di razzismo, perché, di fatto, colpiva soprattutto i neri e i ceti proletari (discriminati e tenuti sotto controllo con il pretesto delle loro inclinazioni all’alcolismo), mentre non toccava i ricchi che di whisky ed altro ne avevano a disposizione quanto volevano. I contrabbandieri e trafficanti in alcolici, diventarono comunque i ‘laici’ ai quali i ricchi potevano rivolgersi per coltivare in clandestinità i loro piaceri di gola consentendo nel contempo ai loro politici di recitare fino in fondo la loro parte di ‘moralizzatori’ di una società minacciata dalla vituperevoli abitudini dei ceti inferiori”. G. C. Marino, Cit., p.157.

Una società che ancora alla vigilia della Grande Crisi del ’29, il crollo della Borsa, e di conseguenza la Grande Depressione degli anni Trenta, vede davanti a sé un livello di prosperità crescente al motto di “avanti tutta”, spalancando le porte ad una serie di affari legati al proibizionismo in cui, appunto, convivono e collaborano criminali, politica, industria e finanza.
È il caso di Joseph Kennedy, povero emigrato irlandese, padre del futuro Presidente e soprattutto tra i maggiori miliardari americani con interessi all’ombra del contrabbando degli alcolici e amicizie che arrivano fino ad Al Capone
Un esempio questo non accidentale, ma opportuno nel tracciare le larghe complicità, volute o fortuite, innescate dal quadro politico che dal Presidente Franklin Delano Roosevelt arriva alle famose misure del New Deal contro lo sfacelo economico del periodo: “Limitandoci qui ad estrarre da fatti assai complessi soltanto gli essenziali riferimenti utili per la nostra storia, si può bene intuire, in via generale, che gli incentivi offerti dalla politica rooseveltiana agli sviluppi di una società dei consumi di massa, improntata ad un modello di Stato sociale o welfare state, offrirono oggettivamente, al di là di ogni intenzione, eccezionali opportunità di affarismo legale-illegale alla mafia. Alla quale si aprì, nel quadro degli interessi sollevati dalla ristrutturazione dell’economia capitalistica, anche il campo di inedite esperienze di potere nel mondo del lavoro per il controllo dei sindacati operai e di facili scalate nella politica dei partiti, attraverso i comitati e le associazioni più diverse, di volta in volta costituiti a sostegno della candidature… Favorevoli agli interessi mafiosi risultarono altresì gli orientamenti statualistici e dirigistici della nuova politica che aumentavano il peso degli apparati burocratici, facilmente addomesticabili… con mirate operazioni di corruzione.
È quasi superfluo precisare che la mafia, in linea di massima, divenne quasi subito rooseveltiana. Attraverso gli stessi meccanismi avviati dalle grandi riforme, si posero le basi di un’alleanza tra mafiosi e parti consistenti del partito democratico che avrebbero avuto una sotterranea, anche se travagliata, continuità fino agli anni Sessanta, ai tempi del presidente J. F. Kennedy…”. G. C. Marino, Storia della mafia, pp.134-135.

L’ARCHITETTO DEL DIAVOLO
In un contesto così melmoso, capace di inghiottire in un sol boccone alimenti buoni e avariati, Lucky Luciano si eleverà dalla folta schiera di malavitosi come “un boys tra i più svegli, proveniente da Lercara Friddi, un paese della provincia di Palermo… capace di inediti sincretismi siculo-americani e delle invenzioni più spericolate e originali”. G. C. Marino, Cit., p.107.

A lui sono ascrivibili tre fasi operative che lo portano ad investire un ruolo di massimo livello “affermandosi nell’immaginario della delinquenza, e persistendo nella memoria storica dell’intera società americana, come l’‘eccellente’, l’‘inarrivabile’, l’incontestato supremo modello. In lui si compì una radicale conversione del gangster (di cui Al Capone era stato l’immaginifico esemplare) in eroe dell’illegalità. A tal punto da riuscire a trovare un posto di rilievo nell’elenco di ‘costruttori e titani’ del XX secolo compilato dal settimanale Time alle soglie del nuovo millennio”. G. C. Marino, I Padrini, p.154.
 
-      L’organizzazione di Cosa Nostra americana in un Sindacato nazionale del crimine a capo di ogni attività illegale nel Paese, navigando in mare aperto a contatto con il potere politico;
-      la presunta collaborazione con il Governo degli Stati Uniti per agevolare lo sbarco in Sicilia delle truppe alleate nella II Guerra mondiale (luglio 1943);
-      l’organizzazione internazionale di Cosa Nostra sull’asse Sicilia-Stati Uniti, necessaria da quando con la fine del proibizionismo e della guerra si profila il nuovo e immenso business del mercato degli stupefacenti.
 
Un’opera di costruzione teorica e pratica che, considerate le caratteristiche e gli strumenti molto particolari della “professione” di Luciano, non può avvenire senza un violento spargimento di sangue per consentire l’ascesa al potere sua e di una nuova generazione di gangster affamati da più moderne idee gestionali rispetto ai vecchi capi della Mano Nera. L’occasione gli si presenta, ma in qualche modo se la procura in un gioco di alleanze sotterranee e tradimenti, al tempo della cosiddetta guerra castellammarese (1930-31) tra i boss Joe Masseria e Salvatore Maranzano: i morti si contano su entrambi i fronti e lo stallo si conclude proprio quando Luciano, d’accordo segretamente col secondo, ordina l’assassinio dello stesso Masseria ad aprile del ’31 in uno scenario da ultima cena e pochi mesi dopo anche del Maranzano illusosi ormai di essere il “capo dei capi”. Luciano non ha più rivali e può dar corso al cambiamento e all’ordine di cui è convinto siano maturi i tempi per lanciarsi in un “gioco” molto più grande e politico, oltreché criminal-affaristico. Infatti, nel 1933 il proibizionismo verrà abrogato con effetti sui quali ancora si discute: “Nel breve periodo, a guadagnarci dal proibizionismo furono le linee di navigazione, le fabbriche di armi, i rivenditori di automobili, in gruppi etnici che acquisirono mobilità sociale, e le pompe funebri. Dovettero invece chiudere per un decennio i saloons dei quartieri operai, che vennero sostituiti da eleganti speakeasies (letteralmente gli esercizi commerciali del ‘parlar piano’ ordinando una bevanda illegale) che si rivolgevano soprattutto ad una clientela di classe media o delle classi superiori. Gli alcolici a disposizione della classi inferiori, che non erano di buona qualità, peggiorarono ancora, tranne che nelle zone di campagna dove si continuò a bere il whisky ad alta gradazione, il cosiddetto ‘lampo bianco’. In definitiva, per il proibizionismo come per molte altre misure repubblicane degli anni Venti, il peso maggiore lo dovettero sopportare le classi economicamente più deboli e le minoranze etniche… Vi sono, tuttavia, studiosi che sostengono che il Diciottesimo emendamento e il Volstead Act mutarono in meglio le abitudini del Paese in materia di alcoolici, perché terminato il proibizionismo, gli Stati Uniti divennero una nazione più sobria… È più probabile che… gli americani si siano messi a bere meno superalcolici per ragioni che non hanno nulla a che vedere col Volstead Act, quali, ad esempio un mutare dei comportamenti legati allo status sociale, un miglioramento delle conoscenze mediche, nuove abitudini alimentari e, dopo la Seconda guerra mondiale, un più alto tenore di vita”. M. E. Parrish, Cit., pp.130-131.
 
Per una fase che si chiude, un’altra ben più vasta si apre tra stupefacenti, settore trasporti, controllo dei porti, mercato del lavoro e molto altro. A questo nuovo banchetto Luciano tiene posto per tutti, italiani in testa, ma anche ebrei, irlandesi e quanti accettino di essere accomunati da un sistema ferreo di regole: “…Luciano fu dunque una forza esterna arruolata per spostare gli equilibri in una lotta per il potere contro i relativamente angusti confini dell’onorata società. I contatti di Lucky con l’assai più vasto universo della criminalità organizzata ebraica e irlandese furono la risorsa fondamentale che egli fece pesare all’interno della mafia. È tuttavia lecito ritenere che la morte di Maranzano segni il momento in cui la mafia operante negli Stati Uniti diventò un’organizzazione italo-americana piuttosto che siciliana… Va comunque precisato che l’americanizzazione della mafia non fu una trasformazione spettacolare, una rottura consumata una volta per tutte con le usanze tradizionali del Vecchio Mondo. Con l’assorbimento di elementi napoletani e di altre regioni del Mezzogiorno italiano, la composizione etnica della mafia diventò lievemente più variegata”. J. Dickie, Cit., p.239.
 
Viene istituita la Commissione o cupola di Cosa Nostra, costituita dalle Cinque Famiglie di New York dei Bonanno, Colombo, Gambino, Genovese, Lucchese, dalla Chicago Outfit di Al Capone e dalla Famiglia di Buffalo dei Magaddino in rappresentanza delle bande minori. Non una semplice congrega di criminali ma un quasi democratico Consiglio di amministrazione per dirimere i vari interessi che ruotano attorno ad alcool, prostituzione, stupefacenti, gioco d’azzardo, sindacati, politica e tutto ciò che crea dollari e potere: “Nacque in questo modo, sicilianissima nel nome, e americanissima nella struttura e nei fini, Cosa nostra, una vera e propria holding dell’affarismo mafioso, avviata a diventare presto, una multinazionale criminale, con capitali enormi in continuo accrescimento, garantiti e alimentati da un’imponente aggregazione di affari tanto diversi quanto sempre amalgamabili, del tutto sporchi o ripuliti, talvolta persino ostentatamente legali, all’insegna dei servizi e dei ‘favori’ da rendere agli alleati della politica e dell’economia, agli ‘amici’ e agli ‘amici degli amici’”. G. C. Marino, Storia della mafia, p.136.
 
Luciano e i suoi “compari”, con le loro estreme potenzialità di investimento e protezione dei più loschi interessi, vogliono farsi trovare pronti a raccogliere le opportunità offerte dall’America della Grande Depressione e dalle risorse messe in campo dai programmi rooseveltiani per combattere la crisi.
 
IL DIABOLICO PATRIOTA
Per questa struttura innovativa, che poggia su solide colonne di tradizione e modernità per la creazione di un impero del crimine, Luciano sarà – cogliendo gli opportuni insegnamenti della storia – un Cesare senza corona, un punto di sintesi della filosofia, delle strategie e dell’autorità per il bene della collettività mafiosa: “Il Luciano voleva… che la mafia fosse in grado di assicurarsi nella società americana un suo posto stabile, possibilmente accettato come regolare e regolatore, un ruolo il meno possibile conflittuale con le istituzioni pubbliche, riservato e coperto, a latere della legalità e, pertanto, un ruolo a suo modo ‘sociale’, che risultasse almeno ufficioso dato che, com’era da ritenersi ovvio, non avrebbe mai potuto essere ufficializzato”. G. C. Marino, I Padrini, p.164.
 
Il quadro sembra perfetto, ma la pretesa di una sorta di “legalizzazione” della criminalità organizzata – per quanto paradossalmente in linea con la facciata tipica di un Far West farcito di sfrenato liberismo economico e libertarismo sociale – è oltremodo inimmaginabile. Lucky Luciano regna dalla sua suite del Waldorf-Astoria Hotel in un apparente stato di sicurezza dovuto anche ad un vastissimo livello di corruzione tale da garantirgli amicizie molto influenti. Eppure lo Stato legale non lo dimentica e lo tallona tanto da fargli rischiare la perdita di tutto. Nel 1936, il Procuratore speciale di New York, Thomas E. Dewey, riesce a raccogliere le uniche prove concrete a suo carico, nel ramo della prostituzione, facendolo condannare a trent’anni di carcere. Una prospettiva non certo allettante per i suoi progetti smisurati cui servono libertà di movimento, nonostante anche dal carcere riesca a dirigere quanto possibile. Ma ecco le circostanze della storia e l’intreccio limaccioso tra legalità e illegalità bussare alla sua porta, scrivendo il capitolo più incerto dal punto di vista delle evidenze storiche ma chiaramente gravido di risvolti più che positivi per la vita di Luciano e della mafia in America e in Italia: la guerra infuria in Europa dal 1939, gli Stati Uniti vengono coinvolti nel ’41 e tra le prime misure di emergenza interna spicca la necessità di protezione portuale da azioni di sabotaggio in corso ad opera di sommergibili tedeschi a poche miglia da New York. Inoltre bisogna porgere orecchie attente e discrete ad eventuali infiltrazioni nazifasciste all’interno delle comunità italo-tedesche.
Ecco tornare molto utili Luciano e le sue diffuse amicizie con capacità di controllo sul territorio. Il Naval Intelligence ne ottiene la collaborazione attraverso il concorso di Joseph Lanza, boss palermitano dei portuali di Manhattan, e soprattutto del braccio destro di Luciano, l’ebreo Meyer Lansky di provata fede antinazista a garanzia dei livelli politici e militari invischiati in questa vicenda che frutta a Lucky Luciano il trasferimento in penitenziari più confortevoli. Ma il contributo della mafia alla sforzo bellico non si ferma qui e va ben oltre il controllo sulla sicurezza dei porti, le truppe anglo-americane si stanno preparando allo sbarco in Sicilia nel luglio 1943 (Operazione Husky); quella Sicilia così familiare al Luciano e che potrebbe agevolare in qualche modo le operazioni navali. È ancora Meyer Lansky con altri soci a tessere i rapporti d’alto livello, mentre dall’altra sponda dell’oceano, Luciano affida al suo vecchio sodale Vito Genovese, da tempo rientrato in Italia dagli Stati Uniti, il compito di mettere in contatto i giusti amici con i servizi americani per preparare il terreno.
 
Sta di fatto che, con buona pace degli storici mafiologi e della legenda di un Lucky Luciano immaginato nel ’43 su un aereo militare nei cieli di Villalba a Caltanissetta con la L sulla bandiera come segnale ai paisà, una serie di coincidenze alimentano l’attendibilità del patto segreto:
In primo luogo, la concessione della libertà sulla parola a Luciano, nel 1946, e il rimpatrio definitivo in Italia. Perché mai questa scarcerazione dopo soli 10 anni di reclusione quando ne avrebbe dovuti scontare 30-50? Libertà ricevuta dallo stesso Thomas E. Dewey, suo accusatore e ora Governatore dello Stato di New York.
Senza dimenticare che dopo lo sbarco ritroviamo nel ruolo di aiutante e interprete il ben noto gangster Vito Genovese, in futuro boss dell’omonima Famiglia, al seguito del Colonnello americano Charles Poletti, capo dell’Ufficio affari civili dell’Amgot (Amministrazione militare alleata dei territori occupati).
Innegabile, inoltre, l’idea serpeggiata – ma non concretizzata – del conferimento a Luciano della “Medaglia d’onore” del Congresso degli Stati Uniti. Per quali meriti eccezionali?
Per finire, altrettanto innegabile, dobbiamo considerare la guerra e i nuovi scenari geopolitici con l’avanzata del comunismo una manna dal cielo per i mafiosi siciliani, restituiti dopo la morsa del fascismo al loro potere sull’isola tanto da attizzare il fuoco del separatismo con la non tanto segreta ambizione di aggiungersi come Stato e stelletta alla bandiera americana. E non pochi di questi personaggi, ergendosi dalla già citata melma Stato-mafia arrivano a prendere direttamente la guida di diverse amministrazioni comunali, come nel caso più celebre del capomafia Calogero Vizzini: “È fin troppo facile intuire il senso e i fini del delicato incarico affidato al Luciano: egli avrebbe dovuto – il che sicuramente fece da par suo, con tutta la rapidità consentitagli dai collegamenti esistenti tra osa Nostra e l’Onorata società – addirittura organizzare un fronte interno filoalleato in Sicilia, sfruttando tutte le risorse delle egemonia sociale della mafia e i suoi rapporti organici con la massoneria. In altri termini, si trattava sia di preparare il terreno per un’amichevole ospitalità della popolazione alle truppe alleate, sia di predisporre le condizioni favorevoli, le alleanze e lo stesso personale locale da utilizzare per un pacifico ed efficace governo dell’isola da parte della futura Amministrazione militare. In tale prospettiva… la mafia veniva, in pratica, legittimata come futura classe dirigente dell’isola, con potenziali compiti di presidio sull’Italia intera”. G. C. Marino, Storia della mafia, pp.146-147.
 
Quindi uno spregiudicato sguardo al futuro postbellico da parte degli americani, perché è evidente che in quel momento gli Alleati, guidati da generali del calibro di George Patton, possono fare a meno della mafia per le operazioni militari, ma ben vengano lo stesso i benefici derivanti da aiuti tesi a facilitare il più possibile l’avanzata sul territorio siciliano risparmiando soprattutto vite umane. E così sarà, giacché è manifesto che queste stesse condizioni non si sarebbero verificate nel sanguinosissimo sbarco in Normandia del 1944. Purtroppo per la realpolitik, l’influenza di Luciano non arriva fino al Canale della Manica!!
 
 
L’ULTIMA “IMPRESA”
La guerra è vinta e Luciano è libero, non ad oziare e godersi la ricca pensione ma in affari tra Napoli e Palermo pianificando il futuro ancora una volta; e futuro significa l’internazionalizzazione sistemica del traffico di eroina, che al momento invece conduce più limitatamente col socio Vizzini attraverso fabbriche di confetti e dolciumi a Palermo. Da tempo si intuisce il potenziale immenso di quel mercato per il quale servono basi di produzione, raffinazione e trasporto; quindi ecco di nuovo il manager e organizzatore alle prese con un progetto ancora più articolato di quello che aveva portato alla strutturazione di Cosa Nostra americana anni prima. Ora si tratta di mettere insieme una rete tra Onorata Società siciliana, diramazioni della camorra napoletana e le Famiglie americane per coordinare l’impresa sui mercati europei e d’oltreoceano. Il coinvolgimento determinante della Sicilia, in particolare, non dipende solo da fattori etnici ma per l’efficienza, la competenza, il know-how dei paesani: “il controllo del territorio da parte di Cosa Nostra era molto più completo che negli Stati Uniti… Ma le attrattive dell’Italia non si esaurivano nel suo simpaticamente ‘indecente’ apparato di governo; c’era anche il fatto che il livello del consumo di droga vi era trascurabile, e quindi nessuno poteva essere indotto a occuparsi del problema nell’aspettativa di benefici politici. Inoltre, siccome gli uomini d’onore siciliani si muovevano in lungo e in largo nel Mediterraneo per il contrabbando di sigarette, per loro non sarebbe stato un problema ritirare l’eroina raffinata nel Sud della Francia mentre erano già lì per altri motivi”. J. Dickie, Cit., pp.310-311.
 
Mettendo in moto i suoi contatti per abbozzare la piattaforma del progetto, come per la preparazione di un normale piano industriale con l’aiuto del solito Meyer Lansky, Luciano riunisce i più alti livelli mafiosi al Grand Hotel et Des Palmes di Palermo nell’ottobre del 1957 in cui si decide la fusione tra Onorata società e Cosa Nostra in una sorta di multinazionale del traffico di stupefacenti. Anche questo momento, come nel 1931, coincide con la necessità di un ricambio generazionale adeguato ai tempi nuovi che, soprattutto sul fronte siciliano, i vecchi padrini della mafia rurale stentano a comprendere. Così, mentre si affacciano sulla scena personaggi che assumeranno ruoli di vertice come Tano Badalamenti, altri, come ovvio, indisponibili a limitare la loro influenza saranno messi da parte – o meglio falciati – non con dimissioni o prepensionamenti ma con sventagliate di mitra: il caso più illustre riguarda il calabrese e capo della Famiglia Gambino, Albert Anastasia.
 
Nonostante sembri aver vissuto dieci vite, a quel tempo Luciano ha 60 anni e la modernizzazione mafiosa portata a compimento dovrebbe aprirgli spazi ancora enormi di potere e dominio ma, come in una nemesi storica che sopraggiunge ad equilibrare torti e responsabilità individuali, non godrà a lungo della sua ultima impresa. Questa volta è il suo cuore, in cui forse non hanno albergato mai dei veri sentimenti, a condannarlo a morte con un infarto a Napoli nel 1962: “Così – schiacciato, potrebbe dirsi, dall’enorme peso dei suoi crimini (gli si attribuiscono circa 500 non documentabili omicidi) – compì il suo dovere naturale di morire. Lo fece in modo piuttosto francescano, per terra, con il capo riposto su un cuscino di fortuna, in mezzo a gente anonima e curiosa, su bigi mattoni sporchi di fango. Però il giorno dopo ebbe gli onori di uno dei più grandi funerali a memoria di Napoli. E i suoi sudditi, gli ‘amici’, vollero che ritornasse in America, nella sua vera, piccola patria di Brooklyn, dove tuttora è sepolto”. G. C. Marino, I Padrini, p.192.
 
...La sua opera, invece, è ancora viva e vegeta così come la melma dentro la quale si sostengono bene e male.